giovedì 3 febbraio 2011

vivo alla morte, ma morto alla vita.

Titolo Il fu Mattia Pascal

Autore Luigi Pirandello


Il fu Mattia Pascal esce nel 1904 ad opera dello scrittore e drammaturgo siciliano Luigi Pirandello, dapprima venne pubblicato a puntate sulla rivista “Nuova Antologia” e poi in volume come estratto, da questo periodico. Il romanzo fu scritto dopo la grave crisi familiare del 1903, che pose Pirandello in cattive condizioni economiche e scatenò la malattia mentale della moglie.
Nonostante queste profonde difficoltà personali “Il fu Mattia Pascal” fu il romanzo della svolta. Il esso, difatti, viene applicata la poetica dell’umorismo e appaiono i temi fondamentali dell’opera pirandelliana come, ad esempio, quelli del “doppio”, il problema dell’identità, la critica al moderno e alla civiltà delle macchine. 
La storia di Mattia Pascal comincia dalla fine. Nei primi due capitoli si narra la trasformazione del protagonista nel “fu” Mattia Pascal. Egli vive in uno stato di non-vita, cioè in una condizione di assenza del tempo, di immobilità, di totale estraneazione rispetto all’esistenza in un tempo e spazio completamente morti dati dal lavoro di bibliotecario in un paesino campestre della Liguria.
Nella seconda parte, il protagonista è il giovane Pascal che vive con la madre e il fratello nelle terre di campagna ereditate dal padre. Ad insidiare questa idilliaca ed agita vita è l’amministratore-ladro Batta Malagna, che grazie all’ingenuità della donna riesce a mandare in crisi economica la famiglia. Per vendicarsi di lui, Pascal seduce Romilda da cui il vecchio amministratore vorrebbe un figlio. Il caso vuole che però Mattia ingravidi la moglie Olivia, creduta sterile, di Batta Malagna. Lo scambio dei ruoli volge a termine, mentre Malagna riconosce come proprio il figlio di Olivia, Pascal deve accettare come moglie Romilda, il cui scopo era quello di farsi sposare dal ricco amministratore. L’inferno della nuova vita coniugale, le difficoltà economiche gravate dall’odio della suocera e le disgrazie date dalla morte della madre e delle due gemelle avute da Romilda, inducono Pascal al suicidio. Esso però, improvvisamente, vede aumentare le sue ricchezze grazie al gioco della roulette e approfittando di una falsa notizia, che lo vede cadavere, decide di cambiare identità.
Comincia a questo punto la terza fase del romanzo, di questa parte è protagonista la nuova incarnazione di Pascal, il quale assume il nome di Adriano Meis. Egli cercando di costruirsi un nuovo io e di vivere in completa libertà, dopo un soggiorno a Milano e l’esperienza della modernità di una metropoli industriale, si reca a Roma alloggiando nella pensione di Anselmo Paleari, nella quale si innamora della figlia Adriana, che il cognato Papiano insidia. I timori che venga scoperta la sua vera identità, l’impossibilità di crearsi uno stato civile che permetta il matrimonio con Adriana, portano Pascal-Meis a operarsi all’occhio strabico, tratto che lo aveva caratterizzato fin da bambino, e a non denunciare il furto che subisce ad opera di Papiano.
Meis accortosi di non poter sposare Adriana, per allontanarla da sé corteggia la fidanzata di un pittore spagnolo, il quale lo sfida a duello. Per l’ impossibilità di trovare i padrini necessari per battersi, decide di fingere il suicidio dal Tevere.
La formazione di un nuovo se è fallita. A questo punto del romanzo, rientra in scena la prima parte, quella di cui è protagonista il “fu” Mattia Pascal, che per ben due volte è stato giudicato morto.
Fuggito da Roma, Pascal torna nel paesino della sua infanzia e trova Romilda sposata all’amico Pomino, dal quale ha avuto una figlia. Egli rinuncia alla vendetta e ad avvalersi della legge, in quanto sarebbe lui il marito legittimo della donna, decide di rimanere in paese “come fuori della vita”.  Il “fu“ Mattia di notte dorme nel letto della madre morta, quasi a ricongiungersi idealmente a lei, e di giorno vive in una biblioteca abbandonata. Inoltre va a trovare la propria tomba, tanto da considerarsi al di là della vita.
Se all’inizio del romanzo il protagonista poteva dire “Io mi chiamo Mattia Pascal” dando così rilievo alla convenzione sociale della “maschera” nominativa, nel finale può dire di sé soltanto “Io sono il fu Mattia Pascal”, manifestando così la consapevolezza non solo del suo distacco dalla vita, ma anche della trasformazione che lo ha portato a negare qualsiasi valore dell’identità sociale. Pascal parlando con il vecchio bibliotecario, don Eligio, il quale enuncia che fuori dalle convenzioni sociali è impossibile vivere, dichiara di non sapere proprio chi egli sia, cioè di non conoscere la propria identità. Ha intuito, infatti, che un identità vera non esiste, né d’altra parte, può essere conferita da norme sociali false e inautentiche che riducono l’uomo a un nome e ad una mera maschera. 
Tagliando qualsiasi legame vitale con l’esistenza, il protagonista rifiuta ogni immediatezza e concretezza, per limitarsi a guardare dall’esterno, in forme riflessive ed astratte, la vita di coloro che credono di essere persone e invece sono soltanto delle maschere, completamente incapaci di mettersi a nudo. Questo atteggiamento di distanziamento è fatto valere anche verso se stesso, attraverso un distacco umoristico e ad un’estraneità critico-negativa.
Il romanzo esprime una concezione forte del relativismo, il mondo varia non solo da individuo a individuo, ma nella stessa persona a seconda del momento e dello stato d'animo. Poiché però l'uomo ha bisogno di verità assolute, egli vuole credere che i propri valori siano certi e che la realtà sia oggettiva: invece tutto è soggettivo. L'inganno fa credere all'uomo tutto questo. Ciò però è solamente un’ illusione.  Quest'opera sarà sempre attuale, in quanto donando molti ed ottimi punti di riflessioni al lettore e facendo svolgere il romanzo tra il riso ironico e la drammaticità della vita di Pascal, rende il soliloquio del protagonista un mezzo, dinamico e scorrevole, grazie al quale ogni persona può analizzare la propria interiorità e partendo da un esternalizzazione oggettiva critica arrivare all’accettazione del proprio io. Mattia Pascal ci insegna a gettare la maschera, ed io credo che ciò, nel ventunesimo secolo, sia un grande insegnamento, che tutti dovrebbero prendere in considerazione.   

venerdì 28 gennaio 2011

La vita non è né brutta né bella, ma è originale!

Titolo:  La coscienza di Zeno

Autore:  Italo Svevo


La coscienza di Zeno esce nel 1923 ad opera di Italo Svevo, pseudonimo di Ettore Schmitz, che scelse questo appellativo per sottolineare la sua duplice appartenenza, Italica e “sveva” o tedesca, abitando a Trieste che sino al 1918 fece parte dell’impero Austroungarico.
L’opera è suddivisa in sette capitoli (Preambolo, Il fumo, La morte di mio padre, La storia del mio matrimonio, La moglie e l’amante, Storia di un’associazione commerciale, Psico-analisi.) preceduti da una Prefazione.
Nei sette capitoli a scrivere è Zeno Cosini e l’opera si presenta come una memoria inviata dallo stesso Zeno allo psicoanalista che lo ha in cura, il dottor S., quest’ultimo non trova nulla di meglio che indurre il suo paziente a scrivere un diario della malattia che lo affigge, e se scusa, in seguito, nel brevissimo capitolo iniziale intitolato Prefazione. Il Dottor S. difatti, sperava che una simile attività potesse essere “un buon preludio alla psico-analisi”, ma viene sistematicamente deluso da Zeno, il quale decide di abbandonare il trattamento sottopostogli. La conseguenza è evidente, lo strano psicoanalista decide di pubblicare le memorie del paziente per pura vendetta.
Essendo una autobiografia, Zeno risulta il protagonista – narratore, perciò tutto il racconto è tempestato di giudizi e commenti assai poco obbiettivi sorti nel momento della stesura, su eventi passati. Possiamo dire quindi che Zeno, uomo assai bizzarro e nevrotico, non riuscirà mai ad essere un giudice attendibile dei fatti messi in stretta relazione con la sua nevrosi.
Nel Preambolo, a prendere parola è Zeno anziano, che servendosi della scrittura dovrebbe riuscire a curare la sua malattia, ma già dalle prime righe affiorano in lui i primi dubbi sulla possibilità di raggiungere la cosiddetta salute spirituale.
Segue il capitolo Il fumo, in esso la nevrosi che affligge Zeno si manifesta attraverso l’atto di rimandare le cose. “L’ultima sigaretta”, che Zeno annotta ovunque a seguito di eventi considerati da lui importanti nella sua vita, come il passaggio dagli studi di legge a quelli di chimica, è solo un buon proposito che gi permette ogni volta di assaporare al meglio quel ‘ultima sigaretta.
Nel capitolo La morte di mio padre, viene narrata la grande ostilità presente tra padre e figlio velata però da quel senso di amore che dovrebbe preesistere tra genitori e figli.  L’astio presente tra i due sfocia e viene perfettamente rappresentato, dalla tremenda esperienza di Zeno, che riceve una schiaffo dal padre, poco prima che questi muoia. Zeno vive quel momento come l’estrema punizione che il padre ha voluto infliggerli prima di andarsene.
Quindi, nel capitolo La storia del mio matrimonio, Zeno racconta in successione temporale l’assurda vicenda che lo porta all’altare. Egli conobbe, prima della sua sposa, il futuro suocero, uomo d’affari che permise a Zeno di entrare nella sua casa e fare la conoscenza delle sue tre figlie.
Zeno, fin da subito, si innamora di Ada, la più adulta e la più bella, che però trovandolo assai ridicolo, si innamora a sua volta di un uomo assai più dotto e capace nella vita del nostro protagonista. Pur essendo ormai certo del rifiuto di Ada, esso propone il matrimonio alla sorella più piccola, Alberta, che per motivi di emancipazione femminile rifiuta. Infine va da Augusta, delle tre la più brutta da sempre con un debole per Zeno, che accetta , motivandosi così “voi, Zeno, avete bisogno di una donna che voglia vivere per voi e vi assista. Io voglio essere quella donna.”.
La vicenda che segue La moglie e l’amante, narra la burrascosa storia che nasce tra Zeno e Carla, una donna di misere condizioni economiche ma con un grande talento artistico che necessità di ingenti finanziamenti per essere affinato per far di lei una vera cantante. Zeno spinto dal fascino della ragazza, decide di aiutarla e in seguito di prendersela come amante, sebbene la sua coscienza gli rimandi sempre la serenità derivatagli dal tranquillo matrimonio con la moglie.  Ed è proprio questo il motivo che porterà Carla a terminare la loro storia, scambiando la bella e triste Ada per l’ignara Augusta, ne rimane talmente colpita tanto da lasciare Zeno e acconsentire il matrimonio con il suo insegnante di canto. Zeno, sebbene possa finalmente dirsi al sicuro il suo matrimonio, non accetta di buon grado la separazione e si ritrova a rispondere al richiamo amoroso di una donna incontrata per una delle tante vie di Trieste.
Nel capitolo Storia di un’associazione commerciale l’ambivalenza del comportamento di Zeno si manifesta nei confronti di Guido, l’uomo prescelto da Ada. Guido fonda un’azienda commerciale e chiama Zeno a farvi da contabile. Zeno assicura più volte che ogni suo sforzo fu volto ad aiutare il cognato, lasciando però molti indizi che provino il contrario, come ad esempio il continuo giustificare le sue azioni che forse, si può supporre, contribuirono a rovinare economicamente Guido.  Quest’ultimo si abbandona alla sue disgrazie, tanto da ingerire una forte dose di sonnifero che lo porterà alla morte.
Zeno allora, speculando un borsa cerca di ricostruire il patrimonio del cognato ricavandone ottimi risultati finanziari.    
Ciò porta Zeno ad essere rimproverato da Ada, anche a seguita della sua sbadataggine per aver partecipato al funerale sbagliato, che gli dice “Così hai fatto in modo ch’egli è morto proprio per una cosa che non ne valeva la pena!”, uscendo per sempre dalla sua vita.
In Psico-analisi, Zeno anziano attraversando l’esperienza della psicoanalisi, rimane deluso tanto da negare addirittura l’esistenza della sua malattia “La miglior prova ch’io non ho avuta quella malattia risulta dal fatto che non ne sono guarito”  in quanto in sei interi mesi si sente peggio di prima. Poi Zeno espone la dottrina del dottor S., secondo la quale tutti i suoi comportamenti possono essere spiegati attraverso la teoria edipica studiata da Freud.  Zeno cos si auto convince che la malattia sia una parte ineliminabile della sua vita e che ogni sua passione e ogni suo vizio siano legati ad essa. Nel mentre, la guerra si avvicina, e l’Italia entra in conflitto.
La Coscienza di Zeno termina con l’affermazione del protagonista di aver finalmente conquistato la salute e insieme con la previsione catastrofica dell’estinzione dell’umanità a causa della follia dell’umanità stessa. Il successo  individuale si contrappone con la catastrofe generale, ciò si evince dalla speculazione di guerra che Zeno fa dei suoi averi. Ma Zeno non è guarito, in quanto la malattia che lo affligge s’identifica con la malattia della civiltà. La visione del romanzo è assolutamente e univocamente pessimistica, e ci presenta in Zeno la doppiezza della società formata da individui sia furbi che deboli. “La vita non è né bella né brutta: è originale.”
Il romanzo mi ha entusiasmato per la sua carica di ironia, che contribuisce attraverso a ossimori continui a rendere doppio il suo senso, inoltre mi piace come sia possibile, per il lettore, poter interpretare le parole di Zeno senza sapere se credergli o no, dosando la carica di fiducia da riporre nel narratore.

venerdì 14 gennaio 2011

Candy è scomparsa!



"C'erano una volta Candy e Danny. Non esisteva nient'altro. Fu un anno molto caldo quello, la cera si scioglieva sugli alberi. Lui si arrampicava sui balconi, si arrampicava dappertutto, faceva qualunque cosa per lei. Danny caro...migliaia di uccellini, più piccoli, gli ornavano la testa e tutto era oro. Una notte il letto prese fuoco, lui era bello e anche un delinquente con le palle. Vivevamo di sole e tavolette di cioccolato. Era il pomeriggio del piacere più sottile. Gli ultimi raggi sfrecciavano in cielo come squali sull'acqua..."voglio provarla come fai tu questa volta". Sei piombato nella mia vita all'improvviso e m'è piaciuto, abbiamo nuotato nel fango della nostra gioia, io avevo le gambe bagnate di facile sottomissione, poi si è creato un baratro tra noi e la terra si è capovolta. Questo è il vero problema. Danny il temerario, Candy è scomparsa!"


Paradiso + inferno è una storia di dipendenze. Amore ed eroina, queste sono le cose che rendono il mondo di Danny e Candy così perfettamente imperfetto.  Per i due non esiste null’altro se non l’amore che li lega, un amore indissolubile che riesce a superare i problemi e le convinzioni borghesi dei genitori di Candy, che vogliono la ragazza lontana da quello strano individuo. Il loro personale paradiso prende vita, l’arte e la droga fanno da compagne a questo sregolato amore, fino a quando i problemi diventano così grandi da sopraffarli completamente. L’inferno sopraggiunge. Una spirale di problemi senza fine sembra entrare nell’equilibrio della coppia, Candy inizia a prostituirsi, rimanendo inesorabilmente in cinta. Tutto diventa insostenibile, la gravidanza e la disintossicazione sgretolano il loro mondo,  fino ad uccidere completamente il loro rapporto sulle note di “song to the Siren” di Tim Buckley.
Sebbene questo incipit sappia di già visto e rivisto ed alcune scelte stilistiche e di contenuto siano assolutamente discutibili, il film si differenzia, dalla miriade di pellicole mediocri in circolazione, per la delicatezza con cui ci vengono raccontati i fatti e per l’ottima interpretazione dei protagonisti.



I can resist everything except temptation.

Titolo:  Il ritratto di Dorian Gray 

Autore:  Oscar Wilde

Oscar Wilde fu uno dei più grandi rappresentanti del decadentismo inglese. Sebbene esso fosse irlandese, conquistò Londra scrivendo innumerevoli poesie, drammi, commedie, favole, racconti e saggi, riuscendo ad avere un grande successo letterario.
Wilde basò le sue opere sul principio dell’estetismo, nella propria vita e nella propria arte non obbedì mai ad alcun criterio che non fosse quello del piacere e della bellezza.
Questo stile si trova per l’appunto, in quello che è considerato il suo romanzo più importante, “Il ritratto di Dorian Gray”, uscito nel 1891, venne duramente condannato dalla critica per la sua scabrosa misticità, che non chiariva la posizione dello scrittore in merito alla virtù e alla malvagità. Wilde rispose a queste polemiche nella prefazione del romanzo, tanto che quest’ultima divenne il suo più grande manifesto artistico.  Esso si espresse così: “Virtù e malvagità sono per l’artista semplicemente quello che per un pittore sono i colori sulla tavolozza. Né di più, né di meno.”.
Il protagonista del romanzo è Dorian Gray, un giovane ragazzo, della Londra borghese del XIX secolo, dalla bellezza algida ed eterea con una flebile ed innocente personalità incline ad essere facilmente influenzata. A fargli da maestro di vita troviamo Lord Henry Wotton, un nobile cinico e spietato che attraverso il suo carisma e i suoi innumerevoli aforismi, mira a intaccare la purezza di Dorian, insegnandoli l’amore per la bellezza e la ricerca del piacere.
Il romanzo comincia presentandoci lo  studio di
Basil Hallward, intimo amico di Dorian e pittore affermato; mentre quest’ultimo, è  intento a dipingere un ritratto per l’amico per cui nutre una profonda ammirazione.
Dorian ottenendo in regalo il suo ritratto, rimane affascinato a tal punto da quella fresca e giovane immagine, tanto da creare della propria bellezza e giovinezza un pregio del quale mai avrebbe potuto privarsi, provando perfino una sorta di invidia per quel ritratto, il cui splendore sarebbe stato immutato ed eterno.   
Per una malvagia causalità , partorita dai pensieri che invadevano la mente di Dorian, accedé che il ritratto portasse a se tutti i segni dell’età che passa e dei vizi e delitti dell’uomo raffigurato, mantenendo quest’ultimo nell’aspetto sempre giovane e bello. Se ciò in principio disgusta Dorian che vede il quadro perire ed imbruttirsi, inseguito esso decide di nasconderlo nella soffitta della propria casa, approfittando di ciò per seguire a fondo gli insegnamenti di Lord Henry. Quando il pittore Hallward, però viene a conoscenza dei profondi mutamenti del suo quadro, rimprovera all’amico la vita vergognosa, pregandolo di fermarsi. Dorian accecato dal potere che possiede e spinto da un profondo odio per il creatore di quel ritratto demoniaco, lo accoltella, uccidendolo.
Cercando a fondo il vero piacere, Dorian incontra nella sua vita anche una giovane donna, Sybil Vane, di cui si invaghisce e il quale  a sua volta viene ricambiato. Si tratta di un’ attrice di teatro, nel quale spesso Dorian amava trascorrere le sue serate.
A seguito dell’interessamento ch’esso prova verso la ragazza, ella rimane fortemente colpita dal suo rifiuto, dovuto al fatto che una sera la sua recitazione non gli fosse piaciuta. Tanto, che spinta dalla disperazione, ella decide di togliersi la vita. Così che sulle spalle di Dorian ora gravino ben due morti, che assieme alla totale mancanza di leggi morali, vanno a deturpare ancor più il dipinto.
Il protagonista messo di fronte alla brutalità della sua anima, raffigurata così perfettamente nel suo ritratto con i tratti spaventevoli del volto e il sangue sulle mani, diventa un atto d’accusa troppo pesante da sopportare tanto da indurlo a lacerare il quadro con un coltello.
Ma è lui a cadere morto: il ritratto torna a mostrare le fattezze del giovane e bello Dorian Gray, mentre a terra resta un uomo devastato dalla vecchiaia, un essere disgustoso e spaventevole, tanto da essere quasi irriconoscibile dai servi, che lo troveranno riverso con un coltello conficcato nel cuore. L’arte, insomma, trionfa sempre sulle brutture della vita. 

domenica 2 gennaio 2011

o n t h e r o a d a g a i n.

Titolo: Sulla strada. 

Autore: Jack Kerouac

Jack Kerouac fu uno dei maggiori interpreti ed esponenti della Beat Generation, termine da egli stesso coniato ed in seguito utilizzato su scala mondiale per riferirsi alla letteratura americana utopica e sregolata di metà secolo scorso.
“Beat” in inglese coglie al suo interno una miriade di sfumature e a mio parere solo riportando  le parole della giornalista e cultrice della letteratura statunitense, Fernanda Pivano, è possibile accoglierne il totale significato “Beat vuol dire diverso, emarginato, battuto e sconfitto ma per una scelta di estraneità rispetto al mondo in autentico della carriera e del consumismo. … Beat vuol dire ritmo, il ritmo del jazz di Charlie Parker, ritmo costituito della prosa per lo scrittore, ma anche modello etico che richiede di suonare la propria vita e la propria arte senza risparmio, fino all’ultimo fiato. … Ma beat anche nel senso specifico che Kerouac vi ha aggiunto, come radice della parola beatific, la condizione che ha cercato tutta la vita, un abbraccio liberatorio, senza veli e senza ritegni.” Ed è anche possibile, attraverso queste parole, comprendere a fondo questo romanzo che non è altro che l’esperienza di vita dell’autore. Un viaggio folle, visionario e straordinariamente affascinante.
Un altro passo da compiere per capire a fondo l’opera è quello di analizzare la figura di Dean Moriarty, co-protagonista fondamentale e compagno d’avventura di Sal Paradise, il narratore interno. Quest’ultimo si identifica con lo stesso Jack Kerouac, mentre Moriarty è Neal Cassady, amico emancipato di Kerouac e per il quale fu un ottima fonte di ispirazione letteraria.
La storia narra delle aspettative di vita e del profondo impulso interiore di un gruppo di giovani nell’ America perbenista degli anni ’50, di una vita senza fissa dimora, segnata profondamente dall’ alcol, dalla droga, dalla promiscuità sessuale, dal continuo rifiuto dei comuni valori borghesi e dal totale abbraccio di una vita per l’appunto sulla strada. L’elemento portante che porta Sal e Dean a percorrere kilometri per le strade d’America è la ricerca dell’ istinto primitivo innocente e creativo.  Una condizione di estasi alla quale cercano di abbandonarsi.
Grazie a saltuari  lavoretti e ai soldi mandategli dalla zia, Sal girovaga per gli Stati Uniti, trovandosi nelle più svariate avventure insieme ai suoi più diversi amici e alle donne, da ricordare è il lavoro nel campi di cotone al quale si sottopone per vivere con Terry, una ragazza madre di colore con il quale trascorrerà un periodo del suo viaggio. Dean dal canto suo, è alla ricerca sfrenata del padre alcolizzato di cui ebbe perse le tracce tempo prima. Attraverso le più disparate avventure, i due si ritrovano nella città di Denver dove decidono, su una scassinata Ford, di proseguire insieme il viaggio intrapreso e tra sesso, musica jazz, accese chiacchierate con gli amici sotto l’effetto di droga ed alcool, terminano l’epopeico cammino nel profondo Messico. Questo non è altro che il traguardo di un lungo percorso a tappe di un cammino esistenziale verso la vita perfetta. Questo traguardo ideale non viene però mai raggiunto poiché di fatto esso non esiste: la disillusione finale riporta i protagonisti alla dura realtà, ad una vita improntata alla continua fuga dal conformismo.
Il viaggio terreno non è altro che un profondo viaggio interiore che i protagonisti percorrono e nel quale non vi trovano pace se non la vera comprensione delle propria e più profonda umana identità.
Questa a mio parere è la chiave di svolta per comprendere minuziosamente ogni sfumatura del romanzo, Kerouac ci insegna a vivere la vita con la maggiore intensità possibile sia nel bene che nel male ed è per questo che su quest’opera si è creato un vero e proprio mito con altissime aspettative che probabilmente non verranno colte da tutti, poiché nel genio c’è sempre un pizzico di disordinata ed incomprensibile pazzia.

"A me piacciono troppe cose e io mi ritrovo sempre confuso e impegolato a correre da una stella cadente all’altra finché non precipito. Questa è la notte e quel che ti combina. Non avevo niente da offrire a nessuno eccetto la mia stessa confusione." (Parte seconda – Capitolo 4 – On the Road)

mercoledì 29 dicembre 2010

You never forget the first time.


Questo blog nasce a causa di un noiosissimo obbligo scolastico datomi dalla mia insegnante di letteratura, ovvero quello di creare 16 mostri su altrettante opere letterarie del secolo scorso. Il mio ego ha fatto il resto.
Ecco il primo scheletro.



Titolo:  Il Muro

Autore: Jean-Paul Sartre

Il Muro, opera del filosofo e scrittore francese Sartre, racchiude al suo interno cinque storie di “piccole disfatte”, come le definì egli stesso in seguito alla pubblicazione e alle molte critiche e denuncie da parte del grande pubblico.
La morte, la follia, l’assassinio, l’autodeterminazione, l’antisemitismo, l’impotenza e l’omosessualità sono solo alcuni dei temi che l’opera tocca. Attraverso cinque racconti apparentemente diversi, in verità del tutto indissolubili per una corretta interpretazione della profonda meditazione sull’esistenza da parte dell’autore, vengono analizzate le vite dei vari personaggi  e i risvolti materiali di quest’ultime.
Nel primo racconto, “Il Muro”, si narrano il susseguirsi di pensieri e sensazioni di tre condannati a morte durante la guerra di Spagna. Costretti per tre ore ad attendere la loro morte in una gelida cella, controllati a vista da un medico pronto ad annotare ogni loro reazione, Pablo, il protagonista, si troverà ad affrontare un radicale cambiamento interiore scandito dalle fucilazioni inferte ai prigionieri lungo un muro del carcere.
Ne “La Camera”, invece, una giovane donna si ritrova innamorata di un uomo che lentamente sta scivolando nella pazzia. Fingendo di condividerne visioni e paure, essa si ritrova a vivere in bilico tra il mondo delle “persone normali” sempre più lontano e la camera nella quale vegeta il marito.
Mentre “Erostato” pianifica scabrosamente e minuziosamente il suo atto di ribellione verso la condizione umana, attraverso l’assassinio gratuito di diverse persone vuole affermare il suo odio incondizionato verso gli uomini. La realizzazione del piano però gli fugge di mano ed esso si ritrova si ritroverà in uno stato d’incoscienza ad affrontarne l’epilogo.
Lulù è la protagonista del “L’intimità”, che sposata con un uomo impotente si ritrova, spinta dalle parole di un’amica, nelle braccia di un focoso amante. Essa però solo dopo l’abbandono del marito, capisce che quella condizione di tranquillità sessuale la tranquillizzava e abbandonandolo stava vivendo ciò che gli altri le presentavano come una fuga e alla quale essa rispondeva con rassegnata finzione.
 L’ultimo racconto “Infanzia di un capo”, a mio dire il più significativo del romanzo, ci presenta la crescita fisica e morale di un ragazzo, il giovane Lucien Fleurier che fin dalla tenera età, crescendo in un ambiente borghese, viene impostato dal padre alla futura posizione di capo d’azienda. Ciò porterà il protagonista al totale annullamento di se stesso, dei suoi sentimenti e delle sue inibizioni. Lucien che si ritrova a vivere una vita di incertezze contornate dallo studio dei testi di Freud, da fantomatici complessi d’Edipo, da atti omosessuali a dei tentati suicidi ad un tratto riesce a dare un senso alla sua vita “per l’appunto ero questo: un fascio enorme di responsabilità e di diritti”, diviene un capo.
Il muro è stato pubblicato nel 1939 ed è frutto della corrente filosofica dell’esistenzialismo, di cui Sartre era uno dei maggiori esponenti; chiaro esempio di ciò è l’impossibilità dei personaggi di fuggire dalle situazioni statiche di prigionia che vivono. Dal mio punto di vista, i diversi  epiloghi dei racconti ci lasciano l’amaro in bocca perché, analizzandoli da un punto di vista del tutto esterno e razionale, ci risultano incomprensibili. Inoltre trovo che l’opera presenti diverse affinità con i romanzi di Franz Kafka, come ad esempio “il Processo”, dove il protagonista si ritrova immerso in una vita del tutto estranea alla sua e le sue certezze decadono a favore di un  processo incomprensibile da cui non troverà possibile via d’uscita, se non la morte.
L’opera di Sartre in linea generale mi ha colpito positivamente, presenta notevoli spunti di riflessione facilitati anche dalla presenza di racconti di breve durata e grande impatto emotivo. Le personalità dei diversi personaggi vengono analizzate a fondo e trovano facile collocazione anche nella nostra realtà attuale, aspetto che ho apprezzato molto soprattutto nei racconti di “Erostato” ed “Infanzia di un capo”.